La recente sentenza della Corte di Cassazione del 10.02.2016, n. 2629, ha disegnato uno scenario differente rispetto all’orientamento consolidato circa la somministrazione di alimenti e bevande per gli enti non commerciali.
In particolare secondo la predetta sentenza “perché non venga considerata prestazione fatta nell’esercizio di un’attività commerciale, la somministrazione di pasti e bevande non basta che avvenga all’interno dell’associazione, ma occorre che la predetta attività sia conforme alle finalità istituzionali dell’Ente, e strettamente complementare a quelle svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali“.
In passato, infatti, era stato più volte sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità che “la gestione di esercizi di bar-caffè, per la mescita di bevande ai propri associati, effettuata verso pagamento di corrispettivi specifici, non rientra in alcun modo tra le finalità istituzionali di un club sportivo, culturale, ricreativo e, quindi, devesi ritenere attività di natura commerciale, i cui proventi sono soggetti ad imposizione fiscale”.
A questo proposito si ricorda che, ai sensi dell’art. 148, c. 5 del Tuir, esclusivamente per le associazioni di promozione sociale, le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal Ministero dell’Interno, non si considerano commerciali, anche se effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici, la somministrazione di alimenti e bevande presso le sedi in cui viene svolta l’attività istituzionale da bar ed esercizi similari qualora strettamente complementari a quelle svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, a favore dei propri associati, di quelli di altre associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento, atto costitutivo o statuto fanno parte di un’unica organizzazione locale o nazionale, ovvero dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali di affiliazione.
Tuttavia, dalla sentenza del 10.02.2016 pare evidente come la volontà dei giudicanti sia stata quella di verificare le effettive modalità di svolgimento delle attività di somministrazione, al fine di comprendere la reale natura dei beneficiari.
Pertanto, i giudici tributari, rilevato che dall’analisi del PVC “presso la predetta associazione veniva svolta attività di ristorazione e che all’atto dell’accesso venivano rinvenute presso la sede persone non socie, le quali dopo aver pranzato pagavano un corrispettivo dietro emissione di regolare ricevuta fiscale”, data l’assenza, nei locali, di associati intenti allo svolgimento delle attività ricreative istituzionali del sodalizio, hanno ritenuto che l’associazione, in realtà, mascherasse una vera e propria attività commerciale di ristorazione.
A sostegno e conferma della predetta tesi sono state utilizzate come prove non solo la mancata istituzione dei libri sociali, ma soprattutto l’ubicazione e la possibilità di accesso incontrollato nei locali dell’ente, i quali risultavano condivisi con un’impresa di ristorazione.
Marzo 2016